Sono stato in perlustrazione alla Fiera della Piccola e media Editoria prima del Più Blog Camp. Ho assistito ad un paio di tavole rotonde, una sull’editoria e web 2.0, inteso come internet in ri-evoluzione sociale e una sul corporate blogging.

L’impressione che ne ho ricavato non è delle migliori. Ho misurato la distanza abissale tra il mondo dei libri fatti di carta e il web che non mi sentirei di chiamare ancora nuova tecnologia.

Ha ragione il mio amico Stefano: sembra di assistere a volte alla scena dell’ Era Glaciale, il film animato. Quella in cui una tartaruga piazzista cerca di vendere una canna di bambù alla massa migrante di animali in via di estinzione per salvarsi dall’inondazione.

Si misura, ascoltando interventi e domande, il cui livello supera raramente uno snobistico scetticismo, la distanza abissale tra mondo reale e mondo dell’editoria. Mercati sempre più digitalida un lato e mondo dei libri sempre più auto referenziale dall’altro. Come se i numeri di una crisi evidente non fossero sotto gli occhi di tutti, e come se la causa fosse la rete e la convergenza digitale e non l’incapacità di coglierne le enormi potenzialità per un’industria che potrebbe rifondarsi sul digitale.

Discutere di tanta miopia non ha più senso ormai, si è detto molto e non c’è altro da fare se non attendere fiduciosi il cambiamento.

Dal dibattito sul corporate blogging qualche spunto in più. Il punto è sempre lo stesso: le aziende non capiscono ancora come e cosa poterci fare, anche se effettivamente non è quello il vero problema. Interessante il paradosso di Andrea Genovese che si domandava, quasi stupito, come mai per anni, le aziende, hanno speso ingenti somme per fare ricerche di mercato ed indagare l’umore altalenante dei consumatori ed ora che hanno a disposizione strumenti potentissimi e poco costosi per relazionarsi con loro ed inserirli addirittura nei processi di produzione, diffidano e si tirano indietro.

La risposta secondo me sta nella dimensione e nella organizzazione aziendale. Ruoli e gerarchie acquisite con fatica nel tempo non si svendono facilmente a quel consumatore che si è cercato di conquistare con anni di fatica. Non gli si da volentieri le chiavi della macchina e gli si dice guida. No. L’intelligenza collettiva è per forza più saggia di quella individuale e si finisce con lo scoprire che la macchina la guidano meglio proprio loro: i clienti. Quanti livelli intermedi e rami del top salterebbero? Specie nelle origanizzazioni di grandi dimensioni, gli interessi delle stesse non corrisponde er nulla alla somma degli interessi dei membri che le compongono. Anzi.

Il problema delle tre scimmiette mute sorde e cieche non lo hanno comunque solo le aziende e le corporations. E’ problema sociale e politico. Lo dimostrano eventi come il vaffaday di Grillo e i tentativi goffi ed irresponsabili di nascondere macroscopiche verità come la menzogna delle armi di distruzione di massa in Iraq, le assolutamente poco rilevanti abitudini sessuali di un portavoce di Governo ed il relativo servilismo degli organi di stampa che, prima di pubblicare, cercano di fare la cresta sulla notizia e gli esempi sarebbero tantissimi, ma lasciamo stare qui, per pietà.

Ci si preoccupa tanto della privacy dei cittadini e della tutela dei diritti d’autore ma non si è ancora capito che oramai la comunicazione è affare di tutti e non solo di addetti ai lavori. La comunicazione è cittadinanza. Diritti e doveri, quindi. Un diritto binario.

Interessante, su tutti, lo spunto del direttore marketing di dada.net che ha sottolineato un punto troppo spesso ignorato. Il corporate blogging, se fatto bene, ovvero se lasciato alla voce delle persone che “sono” l’azienda, la umanizzano. E gli uomini parlano ma ascoltano anche. La voce non va solo dal produttore al consumatore ma segue anche il percorso inverso, senza filtri. Chi è coinvolto nella produzione non ha più davanti un target, una classe demografica, ma parla quotidianamente con le persone desitanatarie di ciò che si produce. La voce gli arriva direttamente e questo può avere notevoli implicazioni sul piano dell’etica della produzione e dei cosumi, sulla responsabilità sociale dell’impresa che non diventa un’altra astratta disciplina nei corsi di management ma voce, mani, occhi e parole reali e quotidiane.

Il blogging non è quindi solo un’opportunità per le imprese, ha una importante dimensione morale ed etica, di trasparenza, garanzie e responsabilizzazione.

Ultima, degna di nota, un’affermazione di Mafe che non ho potuto aprofondire essendo dovuto scappare prima della fine.

Il corporate blogging forse non è consigliabile per quelle aziende del lusso, che fondano la loro strategia sull’elitarismo e sulla irraggiungibilità.

Sono d’accordo. Non va bene ma per ragioni diverse dalla distanza. Il meccanismo dell’irraggiungibilità è illusorio e deve restare tale. C’è una distonia tra l’immagine che il brand vuole ottenere ed i canali in cui il prodotto viene distribuito e fatto arrivare alle masse. Una borsa di prada non si nega a nessuno, che sia originale acquistabile a rate o una copia perfetta disponibile sulle spiagge.

Il blog sarebbe solo un nuovo canale dove far percolare il succo del desiderio di esclusività, glamour e divina irraggiungibilità.

Ci sarebbe invece da gestire, ma in fondo non sarebbe un grande problema neanche quello, il fastidioso ronzio di coloro che magari si azzarderebbero a ricordare che quell’olimpo del lusso affonda le sue radici nei sottoscala del territorio campano dove mani sapienti ed artigiane, realizzano il genio dello stile italiano in aziende fantasma e per salari da fame, aziende gestite dalla criminalità organizzata. Chi ha letto Gomorra? L’inchiesta si farebbe da se, non si potrebbe far valere il proprio peso di inserzionisti e alla fine se l’opinione pubblica si ostinasse a ronzare, certi fornitori bisognerebbe cambirarli o farli emergere.

I vantaggi di stare vicino ai consumatori sarebbero compensati dagli svantaggi di dover rinegoziare la filiera a monte erodendo i margini. Gli dobbiamo dare borse non cittadinanza ai consumatori. o No?